Nei Balcani c’è un misterioso sistema postale alternativo

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'Spedire pacchi con l’autobus o con il taxi, affidandoli all’autista, a un amico o a un conoscente, è una delle invenzioni sociali più funzionali dei Balcani'. L'articolo di Ilir Gashi:

È ancora buio quando m’incammino su via Petrakjia, verso la facoltà di musica dell’università, disorientato e confuso dalla realtà del primo mattino a Sarajevo. Il campanile della cattedrale, giusto dietro l’angolo, suona le sei in punto. Dopo l’ultimo rintocco della campana, il suono irritante di una chiamata con vibrazione perfora la mia mente assonnata. Adesso che c’è? Prendo il telefono.Guardo il telefono: sono le 6.02. Maledetta cattedrale.

Rada sa che se io sono in ritardo di due, tre o cinque minuti, tutti gli altri dovranno aspettare almeno altrettanto o anche di più, se rimaniamo bloccati a un semaforo. E Rada detesta far aspettare i passeggeri. Anche chi aspetta i suoi passeggeri – e chi magari non aspetta loro, ma i pacchi che Rada porta con sé, spesso altrettanto importanti – odia aspettare.

Questa volta Rada non è l’unica a fare consegne. Anche la mia borsa è piena di pacchi. Sto portando a un amico un cartone di sigarette Drina, una marca di Sarajevo, e la notte scorsa mi hanno affidato una busta con alcuni documenti e un sacchetto pieno di una strana polvere dai grossi grani e dalla consistenza ruvida. L’uomo che mi ha dato il sacchetto mi ha detto il nome della sostanza ma non ho capito. Poi l’ha ripetuto.

C’incontriamo all’ingresso. Non ci siamo mai visti prima, ma ci riconosciamo facilmente. Ha in mano una grossa scatola con dentro un sintetizzatore, che devo consegnare a un amico comune. Prendo la scatola. “Ok, è tutto”, e ci separiamo. Sono il corriere di una missione importante e non ho tempo da perdere in convenevoli. Corro allo sportello e compro un biglietto.Ho cominciato il mio “lavoro” come corriere nell’autunno del 2020.

Mentre gli autisti nelle loro candide camicie bianche caricano frettolosamente i bagagli, la mia attenzione è attirata da una vecchia signora vestita di nero che se ne sta in piedi vicino a un gigantesco borsone a scacchi. Non mi è chiaro come lo abbia portato fin qui. Aspetta pazientemente in fila. Mi sorride, credo di piacerle. Cominciamo a parlare.“Non sto partendo, figliolo. Sto mandando delle cose alla mia famiglia”.

Dopo diversi viaggi e decine di conversazioni con gente che spedisce e riceve nei Balcani, scopro che il problema non è solo il cibo. Seduto tra gli autisti, nella penombra di un bar chiamato malinconicamente Evropa, cerco di capire cosa sta spedendo la gente. I passeggeri stanno quasi tutti fuori, in attesa del segnale della partenza.

“Vi capita di avere dei problemi?”, chiedo. Afrim mi guarda di traverso. Pensa di nuovo che sono un po­liziotto. Quando spedite per posta, c’è una serie di criteri che incide. Il peso, il valore dell’oggetto, la distanza, la velocità della consegna. I siti e le app sono pieni di tabelle dettagliate e calcolatori che vi permettono di stimare il prezzo al centesimo. Con o senza calcolatore, spesso è piuttosto alto. Per esempio, mandare un pacco che pesa mezzo chilo dalla Serbia alla Bosnia senza ricevuta di ritorno, escluse le spese d’imballaggio o del trasporto aereo, costa circa 18 euro.

In parole povere, si aspettano di essere pagati, e ci mancherebbe altro. Ma trasportare oggetti sull’autobus non è esattamente la norma, e le aziende formalmente non lo permettono, perciò non esiste un tariffario ufficiale. Il prezzo dipende da cosa spedite e a volte dall’umore dell’autista: alcuni chiedono l’equivalente del prezzo pieno di un biglietto, altri la metà. Altri ancora lasciano che siate voi a fissare autonomamente il prezzo del servizio.

Rada, una profuga serba di Sarajevo che è fuggita dalla città all’inizio della guerra, oggi vive a Pale e ha un punto di vista molto chiaro sull’argomento: “Siamo stati fortunati. Nessuno ha mai fatto male a me o alla mia famiglia e noi non abbiamo fatto male a nessuno”. In caso contrario, credo che sarebbe stato impossibile fare il suo lavoro. “Sono tornata a Sarajevo subito dopo la guerra. Non avevo niente da nascondere”.“Prima fumavo le York di Rovigno”, mi dice Bojan.

Qua e là, sui cartelli lungo la strada compaiono toponimi albanesi: Kastrat, Ljuša. Qui vicino c’è anche il villaggio di Arbanaška. È da tanto tempo, però, che da queste parti gli albanesi non si vedono più.

Lula mi saluta nel cortile interno di una vecchia villa nel centro della città. Per la strada impazza la folla di mezzogiorno. Nel cortile, pieno di delicati fiori gialli e rossi, c’è il silenzio assoluto. La lascio sul terrazzo della vecchia villa a osservare i suoi fiori e a rimuginare sul ricordo di un’epoca in cui esisteva ancora una qualche forma di resistenza.

“Lo ha tenuto nascosto finché non ha trovato una persona, uno di cui si poteva fidare, che lo ha portato nel territorio della Repubblica serba di Bosnia e poi a Belgrado”.

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